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lunedì 12 novembre 2012

Il barile di Amontillado-Edgar Allan Poe



Il barile di Amontillado è uno dei racconti più affascinanti di Edgar Allan Poe, e di recente sta divenendo uno dei più citati e ricercati sul web e nei vari servizi librari. Il racconto si presta a diverse collocazioni in effetti passa dal grottesco all'arabesco. L’ambientazione del racconto è una fredda cantina dalle pareti gelide, in cui si legge anche un nesso legato all'oscurità dell’abisso, una discesa verso gli inferi. in effetti si sviluppa lentamente una storia enigmatica, dai risvolti arcani quasi ritualistici, dove solo un attenta e minuziosa lettura sarà utile per poter comprendere appieno il rilievo semantico dell’intreccio simbolico. Essendo la storia ambientata in un fosco sotterraneo, anche la narrazione diviene a sua volta criptica, con frasi e simboli a doppie interpretazioni. È un omicidio premeditato quello che si descrive in questo misterioso racconto, il reclamo di una vendetta che verrà eseguita con lucida e fredda crudeltà demoniaca negli abissali sotterranei del palazzo di Montresor (artefice della vendetta stessa), in un luogo disseminato di barili e resti umani, di ossa ammucchiate. Buona lettura


Le mille offese di Fortunato le avevo tollerate come meglio mi riusciva, ma quando giunse all’oltraggio giurai vendetta. Voi, che ben conoscete la natura della mia anima, non penserete tuttavia che io abbia dato voce a una sola minaccia. COL TEMPO mi sarei vendicato; questo era un punto ormai stabilito – ma la stessa perentorietà della mia risoluzione escludeva ogni idea di rischio. Dovevo non soltanto punire, ma punire impunemente. Un torto non è sanato se il castigo ricade sul castigatore. E così, non è sanato qualora il vendicatore fallisca nel mostrarsi come tale a chi l’ha oltraggiato.
Si deve sapere che, non con parole né con fatti, diedi modo a Fortunato di dubitare della mia benevolenza. Continuavo, com’era mia abitudine, a sorridergli, e lui non s’accorgeva che ORA il mio sorriso nasceva dal pensiero del suo annientamento.
Aveva un punto debole – questo Fortunato – benché per altri versi fosse un uomo da rispettare e persino da temere. Si vantava di essere un gran conoscitore di vini. Pochi italiani hanno il vero spirito da virtuoso: per la maggior parte il loro entusiasmo serve a trovare tempo e opportunità per imbrogliare i MILIONARI inglesi e austriaci. In fatto di quadri e gemme, Fortunato, come i suoi compatrioti, era un ciarlatano, ma a proposito di vecchi vini non mentiva. Sotto quest’aspetto non differivo molto da lui; ero esperto in annate di vini italiani, e ne compravo abbondantemente ogni volta che potevo.
Era quasi il crepuscolo, in una sera al colmo della follia del carnevale, quando incontrai il mio amico. Mi si avvicinò con calore eccessivo, perché aveva bevuto molto. Era vestito da pagliaccio. Aveva addosso un abito aderente, zebrato, e sul capo un cappello a cono con campanellini. Fui talmente felice di vederlo che pensavo non avrei più smesso di stringergli la mano.
Gli dissi: «Mio caro Fortunato, che bello incontrarti. Come stai bene oggi! Ma io ho ricevuto un barile di quel che passa per Amontillado, e ho i miei dubbi».
«Come?» disse, «Amontillado? Un barile? Impossibile! E nel bel mezzo del carnevale?»
«Ho i miei dubbi», replicai. «Sono stato così sciocco da pagare il prezzo intero dell’Amontillado senza consultarti in proposito. Non riuscivo a trovarti, e temevo di perdere un affare.»
«Amontillado!»
«Ho i miei dubbi.»
«Amontillado!»
«E devo chiarirli.»
«Amontillado!»
«Ma vedo che sei occupato: andrò da Luchesi. Se c’è qualcuno che può darmi un giudizio critico, quello è lui. Mi dirà…»
«Luchesi non sa distinguere l’Amontillado dallo Sherry.»
«Eppure qualche stupido sostiene che il suo palato valga il tuo.»
«Andiamo.»
«Dove?»
«Nelle tue cantine.»
«Mio amico, no, non approfitterò della tua cortesia. Capisco che hai un impegno. Luchesi…»
«Non ho alcun impegno. Andiamo.»
«Mio amico, no. Non si tratta del tuo impegno, ma del brutto raffreddore che ti affligge. Le cantine sono così umide. Sono incrostate di salnitro.»
«Andiamo, non importa. Questo raffreddore non è nulla, sul serio. Amontillado! Sei stato imbrogliato; e per quanto riguarda Luchesi, non sa distinguere lo Sherry dall’Amontillado.»
Così dicendo, Fortunato s’impossessò del mio braccio. Dopo essermi avvolto nel roquelaire e aver indossato una maschera di seta nera, lasciai che mi trascinasse al mio palazzo.
Non c’erano servi in casa; si erano dileguati per far festa. Avevo detto che non sarei ritornato sino al mattino e dato loro espliciti ordini di non abbandonare la casa. Tali ordini erano sufficienti, lo sapevo bene, per garantire la loro immediata scomparsa non appena avessi voltato le spalle.
Tolsi due torce dai loro sostegni, e porgendone una a Fortunato lo condussi per diverse sale fino alla volta che portava alle cantine. Scivolai giù su una lunga scala a chiocciola, raccomandandogli di essere cauto nel seguirmi. Giungemmo così ai piedi della discesa, e sostammo insieme sull’umido suolo delle catacombe dei Montresor.
Il passo del mio amico era incerto, e i campanellini sul suo cappello tintinnavano mentre avanzava.
«Il barile» disse.
«È più avanti» asserii. «Ma osserva la candida ragnatela che scintilla sulle pareti di questa caverna.»
Si volse verso me, e scrutò i miei occhi con orbite offuscate da cui stillava il liquido nauseabondo dell’intossicazione.
«Salnitro?» domandò, finalmente.
«Salnitro» risposi. «Da quanto tempo hai questa tosse?»
«Ugh! ugh! ugh! — ugh! ugh! ugh! — ugh! ugh! ugh! — ugh! ugh! ugh! — ugh! ugh! ugh!»
Il mio povero amico non fu in grado di rispondere per diversi minuti.
«Non è niente» disse infine.
«Su» dissi, con risolutezza, «torniamo indietro. La tua salute è preziosa. Sei ricco, rispettato, ammirato, adorato, sei felice come me un tempo. Sei un uomo di cui si sentirebbe la mancanza. Di me non si cura nessuno. Torniamo indietro o ti ammalerai, e non posso assumermi una simile responsabilità. E poi, c’è Luchesi…»
«Basta» disse. «La tosse non è nulla; non mi ucciderà. Non morirò di tosse.»
«Vero – vero» replicai. «E, in realtà, non ho intenzione di allarmarti inutilmente – ma dovresti usare tutte le precauzioni necessarie. Un sorso di questo Medoc ci difenderà dal salnitro.»
Così feci saltare il collo di una bottiglia che giaceva in una lunga fila accanto alle altre, sulla muffa.
«Bevi» dissi, tendendogli il vino.
Lo portò alle labbra con un ghigno. Si fermò e mi scosse con un cenno amichevole, mentre i suoi campanellini tintinnavano.
«Bevo» disse, «agli scheletri che riposano intorno a noi».
«E io alla tua lunga vita.»
Prese di nuovo il mio braccio e proseguimmo.
«Questi sotterranei» disse, «sono immensi».
«I Montresor» spiegai, «furono una famiglia grande e numerosa».
«Ho dimenticato il vostro stemma.»
«Un enorme piede umano d’oro, su sfondo azzurro; il piede schiaccia un serpente rampante le cui zanne sono conficcate nel tallone.»
«E il motto?»
«Nemo me impune lacessit.»
«Bello!» disse.
Il vino brillava nei suoi occhi e i campanellini tintinnavano. La mia stessa fantasia era stata accesa dal Medoc. Passammo per fortilizi di ossa ammucchiate, con barili e botti a intramezzarli, nei più profondi recessi delle catacombe. Mi fermai ancora, e stavolta osai prendere Fortunato per il braccio, sotto il gomito.
«Il salnitro!» dissi. «Guarda come aumenta. Si avvinghia come muschio sulle pareti. Siamo sotto il letto del fiume. Le gocce d’umidità filtrano tra le ossa. Forza, torniamo indietro prima che sia troppo tardi. La tua tosse…»
«Non è nulla» disse. «Proseguiamo. Ma prima, un altro sorso di quel Medoc.»
Ruppi il collo di una bottiglia di De Grave e gliela porsi. La vuotò d’un fiato. I suoi occhi scintillarono di una luce feroce. Rise, e lanciò la bottiglia in avanti con un gesto che non riuscii a comprendere.
Lo guardai con sorpresa. Ripeté il grottesco movimento.
«Non capisci?» disse.
«No» risposi.
«Allora non fai parte della fratellanza.»
«Come?»
«Non sei un massone.»
«Sì, sì» dissi, «Sì! Sì.»
«Tu? Impossibile! Un massone?»
«Massone, sì» replicai.
«Un segno» chiese.
«Ecco» risposi, estraendo una cazzuola da sotto le pieghe del mio roquelaire.
«Stai scherzando» esclamò, balzando indietro con un lieve passo. «Ma proseguiamo per l’Amontillado.»
«Certo» dissi, riponendo l’arnese sotto il mantello, offrendogli di nuovo il braccio. Vi si aggrappò pesantemente. Continuammo il nostro cammino in cerca dell’Amontillado. Passammo attraverso una fila di basse arcate, scendemmo, avanzammo, e scendendo ancora giungemmo a una profonda cripta, in cui l’aria insalubre faceva rosseggiare, più che brillare, le nostre torce.
Nell’angolo più remoto della cripta ne apparve un’altra più angusta. Le sue mura erano state erette con resti umani ammonticchiati contro la volta, lassù, nello stile delle grandi catacombe di Parigi. Tre lati della cripta erano ancora ornati così. Dal quarto le ossa erano state spazzate via, e giacevano sparse a terra, formando in un punto un tumulo di una certa altezza. All’interno della parete così liberata dalle ossa, scorgemmo una cavità ancora più stretta, profonda quattro piedi, larga tre, e alta sei o sette. Sembrava che non fosse stata costruita per nessun uso particolare, ma che si fosse formata così, nell’intervallo tra due dei colossali supporti della volta delle catacombe e uno dei muri perimetrali di solido granito.
Invano, Fortunato, sollevando la sua torcia fioca, tentò di scrutare nelle profondità del recesso. La luce flebile non gli permetteva di scorgerne la fine.
«Entra» dissi. «Lì dentro c’è l’Amontillado. Per quanto riguarda Luchesi…»
«È un ignorante» m’interruppe il mio amico, avanzando claudicante, con me alle calcagna. In un istante aveva raggiunto l’estremità della nicchia e, trovandosi bloccato dalla roccia, rimase lì instupidito, confuso.
Ancora un momento e l’avevo già incatenato al granito. Dalla superficie della parete sporgevano due ganci di ferro, distanti tra loro un paio di piedi in orizzontale. Da uno pendeva una catena, dall’altro un lucchetto. Strinsi la catena sul suo petto, non mi ci vollero che pochi secondi per fissarla. Il mio amico era troppo sconcertato per opporre resistenza. Girata la chiave, mi ritrassi dal recesso.
«Passa la mano sulla parete» dissi, «e sentirai il salnitro. In verità è COSÌ umido. Permettimi di IMPLORARTI ancora una volta di tornare indietro. No? Allora dovrò lasciarti. Ma prima ti renderò tutte le piccole attenzioni che sono in mio potere».
«L’Amontillado!» strillò il mio amico, non ancora rinvenuto dal suo stupore.
«Vero» risposi. «L’Amontillado.»
Pronunciai queste parole e mi diedi da fare col mucchio di ossa di cui ho detto prima. Spostandolo, raccolsi ben presto una discreta quantità di pietre da costruzione e calce. Con questi materiali, e con l’aiuto della mia cazzuola, cominciai con furia a murare l’ingresso della nicchia.
Avevo appena eretto il primo strato della mia costruzione quando scoprii che l’ubriacatura di Fortunato si era in gran parte dissipata. Il primo indizio che ne ebbi fu il lamento sordo che giungeva dalla profondità del recesso. NON ERA il pianto di un ubriaco. Poi ci fu un lungo e ostinato silenzio. Eressi il secondo strato, e il terzo, e il quarto, e allora udii le furiose vibrazioni della catena. Il frastuono echeggiò per diversi minuti, durante i quali, per poterne godere con una maggior soddisfazione, interruppi il mio lavoro e mi sedetti sulle ossa. Quando infine il clangore si esaurì ripresi la cazzuola e aggiunsi senza interruzione il quinto, il sesto, e il settimo strato. Adesso il muro era quasi all’altezza del mio petto. Mi fermai ancora, e allungando la fiaccola oltre la muratura proiettai flebili raggi di luce contro la figura lì dentro.
Una progressione di urla fragorose e stridenti, esplodendo in una scossa dalla gola della figura incatenata, parve spingermi con violenza all’indietro. Per un istante esitai – tremai. Brandii la spada, e la feci vibrare alla cieca nel recesso; ma un momento di riflessione bastò a rassicurarmi. Tastai la solida struttura delle catacombe e mi sentii soddisfatto. Mi riavvicinai alla parete. Risposi alle urla di chi urlava. Feci loro eco – le accompagnai, le superai in volume e in vigore. Così feci, e l’altro si chetò.
Adesso era mezzanotte, e il mio disegno quasi giunto a compimento. Avevo innalzato l’ottavo, il nono, e il decimo strato. E avevo terminato una parte dell’undicesimo e ultimo; rimaneva una singola pietra da incastrare e murare. Lottai col suo peso. Quasi la sistemai nella sua posizione definitiva. Ma allora giunse dalla nicchia una risata sorda che mi fece rizzare i capelli. Seguì una voce penosa, che a stento riconobbi come quella del nobile Fortunato. La voce disse:
«Ah! ah! ah! eh! eh! — davvero un bello scherzo — un eccellente giochetto. Che risate che faremo a palazzo — eh! eh! eh! — sul nostro vino — eh! eh! eh!»
«L’Amontillado» dissi.
«Eh! eh! eh! — eh! eh! eh! — sì, l’Amontillado. Ma non si sta facendo tardi? Non ci staranno aspettando a palazzo, la signora Fortunato e gli altri? Andiamo.»
«Sì» dissi. «Andiamo.»
«PER L’AMOR DI DIO, MONTRESOR!»
«Sì» dissi. «Per l’amor di Dio!»
Ma attesi invano una risposta a queste parole. Divenni impaziente. Chiamai ad alta voce:
«Fortunato!»
Nessuna risposta. Chiamai ancora:
«Fortunato!»
Ancora nessuna risposta. Spinsi una torcia attraverso l’apertura rimasta e la feci cadere di dentro. In risposta udii solo un tintinnio di campanellini. Sentii un brivido al cuore – a causa dell’umidità delle catacombe. Mi affrettai a porre fine al mio lavoro. Incastrai l’ultima pietra nella sua posizione; la murai. Contro la nuova parete rialzai l’antico schermo di ossa. Per mezzo secolo nessun mortale le ha disturbate.
In pace requiescat!

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